LA TORTURA
L'abolizione della tortura
Cesare Beccaria
Il 30 novembre 1786 Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana dak 1765 al 1790, promulgò una Riforma Penale con la quale abolì la pena di morte, la tortura e la mutiliazione delle membra.
<<Abbiamo veduto con qaunta facilità nella passata legislazione era decretata la pena di Morte per i Delitti anco non gravi, ed avendo considerato che l'oggetto della Pena deve essere la soddisfazione al privato, ed al pubblico danno, La correzione del Reo figlio anche esso della Società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi la sicureza nei Rei dei più gravi ed atroci Delitti che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il Pubblico esempio; che il Governo nella punizione dei Delitti, e nel servire agli oggetti ai quali questa unicamente è diretta, è tenuo sempre a valersi dei mezi più efficaci col minor male possibile al Reo...avendo altresì considerato, che una ben diversa legislazione della pena di morte ha termine l'uso della tortura e della mutilazione delle membra>>.
A suggello di quanto stabilito nella Riforma, il granduca ordinò <<la demolizione delle Forche ovunque si trovino>>, ed è uno strano e incredibile contrappasso il fatto che finirono al rogo le forche e gli strumenti di tortura, bruciati davanti alla folla in tutta la Toscana, a Firenze, lo spettacolo fu organizzato nelle Prigioni del Bargello.
Questa legge, trovava la sua isppirazione nelle concezioni filosofiche dell'Illuminismo e soprattutto nell'opera più famosa dell'Illuminismo italiano Dei delitti e delle pene, che Cesare Beccaria pubblicò proprio nel Granducato di Toscana, esattamente a Livorno nel 1764.
La polemica illuminista contro i giureconsulti trovò fertile humus nelle corti europee dei sovrani riformatori. Gli scritti del Muratori, del Verri, del Beccaria e di molti altri riuscirono finalmente dimostrare l'infondatezza della concezione inquisitoria, secondo la quale la tortura è uno strumento indispensabile per ottenere presunte verità, con il quale si può agevolmente piegare il suddito a volere del potere, quale che sia. Il processo inquisitoriale venne quindi ritenuto un luogo dove non poteva esistere la certezza della legge e dove l'arbirio dei giudici era l'unico modo per assicurare il colpevole alla giustizia.
Nello Stato pontificio questo istituto decadde solamente con l'arrivo dei rivluzionari francesi nel 1799, per essere ripristinata subito dopo la loro cacciata; nell'opinione dei giuristi pontiici la tortura era l'ultimo baluardo contro il disordine dei <<tempi nuovi>>. Quella dello Stato della Chiesa era tuttavia una battaglia persa, poiché l'incalzare delle riforme avrebbe portato Pio VII a promulgare il Motu Prorio del 6 luglio 1816, a seguito dell'Editto del 5 luglio 1815 nel quale affermava: <<In una gran parte dei domini distaccati da lungo tempo dal Pontificio governo, il ripristino degli antichi metodi si rende pressocché impossibile o tale almeno, che non possa attenersi senza un notevole disgusto delle popolazioni. Nell'articolo 96 il papa stabiliva: <<L'uso dei tormenti e la pena della corda... rimangono perpetuamente aboliti>>.
Nelle osservazioni sulla strutura e sinngolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630. Pietro Verri mette in luce i limiti di una concezione del diritto arbitraria e irrazionale attraverso lo studio di documenti relativi alla pestilenza del 1630.Secondo la vox populi la malattia era dovuta a: sicari incaricati di spargere il morbo, usando unguenti infetti. Le prime vittime di questa folle idea furono due cittadini che, sottoposti a tortura, confermarono la loro presunta colpa e i nomi dei complici. Verri rivela come la tortura non sia affatto valida per appurare la verità, ma consenta l'assoluzione del colpevole nel caso in cui costui possieda doti di resistenza al dolore notevoli, e vicceversa porti alla condanna di innocenti che non resistono ai tormenti o hanno una debole costituzione fisica.
La Storia della colonna infame del Manzoni, che approfondisce le motivazioni del rifiuto della tortura sottolineando, anchhe l'aspetto sociale del problema: su dieci accusati, cinque vengono condannati, gli altri assolti perché favoriti da una migliore condizione sociale. Ma il rischio più grave è che il toerturato, per terrore, incolpi degli innocenti pur di fsr cessare la tortura. Si innesca un circolo vizioso che non porta a ricostruire la verità dei fatti. quindi annulla l'originaria motivazione del processo inquisitorio.
Naturalismo e uguaglianza sono alla base Dei delitti e delle pene. Secondo Beccaria il diritto autentico e la politica morale durevole devono, infatti essere fondati su <<sentimenti indelebili dell'uomo>>; sono pertanto inutili la tortura e la pena di morte mentre le pene devono essere pubbliche, rapide e dolci per non scatenare la ferocia della folla.
In particolare Beccaria si scaglia contro la pena di morte, considerato il massimo grado di inciviltà al quale può giungere uno stato civile, e contro la tortura. Se ilcompito della giustizia è la punizionde delle ingiustizie e la cattura dei colpevoli, la tortura fa l'esatto opposto perché colpisce tanto i criminali quanto gli innocenti, costrngendoli con la forza ad ammettere delitti dei quali, possono anche non essere gli autori, ed è evidente a chiunque che sotto tortura anche un innocente finirà per confessare reati che non ha commesso pur di porre fine al supplizio. La tortura è ingiusta perché finisce per essere una punizione che si applica prima della condanna: nessuno può essere definito reo prima della sentenza del giudice.
E, una volta sottoposto a tortura, l'innocente è in una condizione peggiore del reo: infatti l'innocente, se viene assolto dopo avere subito la tortura, ha subito un ingiustizia, ma il reo chi ha solo guadagnato, peché è stato torturato ma, non avendo confessato, è risultato innocente e si è salvato da pene ben più gravi. Dunque l'innocente non può che perdere e il colpevole guadagnare, nel caso in cui venga assolto. Lo scritto del Beccaria venne stampato anonimo e, gli vennero molte critiche, soprattutto da parte della Chiesa cattolica, che nel 1766 inserì l'opera nell'Indice dei libri proibiti con questa motivazione: <<Autore del Trattato Dei delitti e delle pene. Carattere stravagante, borioso, il Beccaria ispirò il libro delle idee filantropiche e umanitariste del tempo, difendendo gli accusati a torto, le vittime degli errori giudiziari. Filosoficamente il trattato deriva dal Contratto Sociale del Rousseau...La tendenza al paradossale, al sensismo, la esaltazione dell'individuo contro la società, che è sempre imperfetta e tiranna le idee quindi dell'89, se esaltarono Beccaria, fecero però il suo libro riprovato, e dalla Chiesa condannato>>.
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