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mercoledì 31 ottobre 2018

Storia militare d'Italia. Gl'italiani nelle guerre napoleoniche

Storia militare d'Italia

Il risveglio guerresco italiano (1796-1815)

Gl'italiani nelle guerre napoleoniche


Già i piemontesi s'erano battuti per quattro anni col consueto valore sulle Alpi, dal 1792 al 1796, e i cavalieri napoletani avevano poi, protetto bravamente la ritirata dell'esercito austriaco da Alessandria al Mincio, sì da mritarsi dall'avversario l'appellativo di <<diavoli bianchi>>. Poscia un battaglione e uno squadrone lombardi avevano partecipato alla dura battaglia d'Arcole, e lombardi e cispadani s'erano affermati nel forzamento del Senio contro i pontefici. Nel 1797 la Repubblica cisalpina disponeva 15.000 uomini agguerriti, e nel Veneto, non presago di Campoformio, si erano nell'estate organizzati 13.000 fanti e ben 60.000 guardie civiche. E nel Mezzogiorno, ingrossato a furia ed entrato inconsideratamente in campo contro i francesi del generale Championnet, aveva nel novembre-dicembre 1798, per cause complesse, finito col soggiacere alla sconfitta seguita da un quasi completo dissolvimento, le schiere organizzate dalla Repubblica partenopea s'erano battute con valore e con furore contro l'insorgenza generale, specialmente in Puglia e nella difesa della capitale: l'episodio finale della difesa eroica del forte di Vigliena, saltato in aria seppellendo assalitori e difensori, e del retrostante ponte della Maddalena, parevano sintetizzare , pur negli opposti campi, le virtù guerriere delle genti meridionali. 
Travolte le schiere delle piccole repubbliche italiane, nel 1799, dall'insorgenza generale e dagli eserciti austro-russi, i superstiti di esse, riparati in Francia, eran corsi alla riscossa nel maggio 1800, coll'armata di riserva del primo console, scesa dal passo del Gran San Bernardo. La legione italiana, aveva protetto prima il fianco sinistro dell'esercito francese, poi era penterata in Valsesia, aveva ricacciato un distaccamento austriaco da Varallo, e s'era spinta in Lombardia, assicurando la via alle due colonne laterali scendenti per i valichi del Sempione e del San Gottardo, quindi era giunta fino al Chiese. Nell'agosto la risorta Cisalpina aveva praticamente ricostituito le sue due divisioni; e nel gennaio 1801, una s'era distinta penetrando nel Trentino dal ponte di Coffaro e giungendo in due settimane, fra continui combattimenti, a Trento; l'altra, scesa in Toscana, aveva a Siena ricacciato le realizzate forze del Borbone. Nello stesso anno, in Toscana, nella difesa di Portoferraio all'isola d'Elba, 500 soldati granducali, aiutati dalla popolazione e da qualche soccorso inglese, si erano sostenuti per quasi sei mesi contro le forze napoleoniche, dando prova di tenacia ammirevole. 
Ma prova sempre più luminosa del loro valore, accompagnata da crescenti gravi sacrifizi, gl'italiani avrebbero dato negli anni successivi, dal 1805 al 1814. Essi spargevano generosamente il loro sangue in pressoché tutti i campi di battaglia delle guerre napoleoniche. sia fra le schiere del Regno italico, sia fra quelle dell'esercito napoletano di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. sia nei reggimenti francesi delle regioni nostre annesse via via alla Francia. Un insieme pari alla forza complessiva di non meno di 12 divisioni, unità spesso ridotte, a un terzo o a un quarto dei loro effettivi, e di continuo rinnovate con nuovi complementi. Il sistema francese della coscrizione, secondo la legge Jourdan del 1798, esteso praticamente via via a tutta l'Italia, finiva col chiamare alle armi, prima le aliquote di cinque classi di leva, poi le classi quasi al completo, quindi classi di leva, poi le classi quasi al completo, quindi classi in anticipo e classi già definitivamente congedate; un insieme di circa dicei classi sotto le armi, nel 1813, e nei primi quattro mesi del 1814: fenomeno veramente nuovo e straordinario (la famosa leva in massa del 1793 della Convenzione Nazionale aveva compreso gli uomini di otto classi, dai diciotto ai venticinque anni!). E questo anche se le truppe italiane non erano mai state adoperate riunite in uno o più eserciti, così che apparisse la loro piena efficienza; il Regno italico, che meno di tutti ebbe le sue schiere sparpagliate, nel 1809 aveva nel Friuli e 2 divisioni di Guardia Reale (25 battaglioni e 6 squadroni di cavalleria) accanto a 5 divisioni francesi di fanteria e 3 di cavalleria (65 battaglioni e 39 squadroni); e in Spagna 2 altre divisioni; nell'autunno 1813, alla dfesa del confine naturale giuliano, erano 4 divisioni, accanto ad altrettante francesi, mentre altre 2 si trovavano ancora in Spagna. Nel 1812 nella campagna di Russialil principe Eugenio comandava il IV Corpo d'armata, formato da 2 divisioni e una brigata di cavalleria del Regno italico (26.000 uomini) e 2 piccole divisioni francesi (14.000 uomini). L'esercito napoletano, restò praticamente diviso fra i contingenti mandati in Germania, e poi in Polonia e Russia, quelli in Spagna, e quelli necessari alla protezione del regno contro le minacce degli anglo-siculi e alle velleità di conquista della Sicilia, contro il brigantaggio e l'insurrezione, mal doma in Calabira e sepre latente nel resto del reame. Una divisione e mezzo in Germania e in Polonia, una e mezzo in Spagna, 3 nel regno, oltre a varie migliaia di guardie nazionali; ma pur sempre con truppe francesi accanto a loro; nel 1810 per l'impres di Sicilia erano riunite 3 divisioni francesi e 2 napoletane. Gli italiani, guardati sulle prime d'alto in basso dai commilitoni d'oltralpe, o la più con benevola sufficienza, si i imposero ben presto ai primi soldati del mondo. Vari reggimenti divennero allora famosi, come il 111° fanteria di linea, di piemontesi, il 113° di toscani, il 26° cacciatori a cavallo, di piemontesi. 
Reggimenti italiani erano nel 1805 ad Austerlitz, l'anno dopo a Jena e ad Aurestadt, nel 1807 a Friedland, due anni più tardi a Wagram. Nella campagna di Russia si trovavano a Smolensk 4 reggimenti imperiali, tutti d'elementi italiani fra cui il 111° sempre in prima linea, e i cui soldati si battevano con l'usato valore di una lunga e difficile lotta alla Moscova. Qui si distinguevano le truppe dei vicerè, che conquistarono la grande ridotta di Borodino, ove primo entrava Cosimo del Fante. All'inizio della tremenda ritirata, a Majolaroslavec, le truppe del Regno italico si battterono magnificamente, e poi ancora a Vjazma; impedendo che i russi s'incuneassero fra il corpo del principe Eugenio e quello del Davout di retroguardia, e di nuovo a Krasnoj, ove moriva Cosimo del Fante. Alla Beresina la Guardia Reale era ridotta a 500 uomini, e quivi combattevano pure i resti del spuerbo 111° e altri 5 reggimenti imperiali d'italiani. E dopo Vilna 9000 napoletani proteggevano l'ulteriore ritirata, fra cui 5 superbi squadroni di cavalleria, di scorta all'imperatore, e interamente sacrificati! Dei 26.000 combattenti del Regno italico alla fine a mala pena un migliaio riuscivano a porsi in salvo!
Nel 1813 si battevano il 20 maggio a Bautzen il 137° e il 156° di linea, formati, nell'affannoso bisogno di ridar vita alla Grande Armata, con guardie nazionali piemontesi genovesi, toscane, romane nonché il 4° leggero napoletano. Nell'agosto le truppe italiane si trovano alla battaglia di Dresda, poi col maresciallo Macdonald contro i prussiani del Blücher, e col maresciallo Mey contro gli svedesi di Bernadotte. A Lipsia, le truppe italiane si mantengono salde; e la divisione Fontanelli riesce a conservare Lindenau, tenendo così aperta l'unica via di ritirata ai francesi, e la stessa a poche centinaia d'uomini! E dal 22 gennaio al 29 dicembre del 1813 i napoletani, insieme con toscani e genovesi del 113° reggimento francese, contribuivano gloriosamente alla difesa di Danzica contro russi, prussiani, svedesi, ed elementi italiani erano alla difesa di Stettino, Thorn, Torgau. 
La partecipazione degl'italiani alla guerra di Spagna, guerra aspra e diffcile, contro un popolo inferocito, in cui amore per la libertà e odio verso lo straniero giungevano al parossismo. Si segnalavno specialmente 2 divisioni del regno italico, combattendo in Catalogna prima, poi in Aragona e nella Navarra: dopo un anno di lotta, nel settembre 1809, la divisione Lechi da 7.000 uomini era ridotta a 317! Gl'italiani paretciparono ai famosi assedi di Gerona, di Tarragona (ove moriva eroicamente il granatiere piacentino Bianchini, il 29n giugno 1811, alla testa d'una schiera scelta di 30 granatieri francesi), di Sagunto, di Valenza; e nel frattempo e in seguito si trovarono entro le maglie di una guerriglia sempre più implacabile: truppe regolari spagnole, inglesi, popolazione cittadina pronta a tutti i sacrifici, e poi, nelle retrovie, sui fianchi, alle spalle, ovunque, le bande degli insorti. La situazione si faceva, col passare degli anni, sempre più difficile e grave; specialmente tremendi per i combattenti di Spagna gli anni 1812 e 1813, e tali da far poco rimpiangere la sorte di chi combatteva in Russia e in Germania; molte forze erano state richiamate appunto per la grande spedizione contro lo zar, e l'insorgenza spagnola, aiutata da inglesi, portoghesi, siciliani e delle forze regolari spagnole, vinte in otto battaglie ma non mai distrutte, si mostrava sempre più implacabile, rompendo i collegamenti, tagliando i viveri, massacrando distaccamenti isolati e in marcia; e le forze, che via via dovevano retrocedere verso il settentrione della penisola e verso i Pirenei, erano premute da tutte le parti, affamate, assetate, esauste. Gl'italiani si trovavano a lottare contro i più inesorabili capi dell'insoegenza, quali il Mina, l'Arzuelo, l'Empecinado, il Capillo, il Villacampa, per non ricordarne che alcuni. Gl'insorti ben di rado faccevano prigionieri, potevano non esserlo più in momenti di grave difficoltà, o erano destinati a morire di fame e di stenti, di sfinimento di rovinose marce, di sofferenze insomma e privazioni d'ogni sorta in una orrenda cattività. 
Non solo truppe del Regno italico dellesercito napoletano, ma italiani nei reggimenti francesi combattevano la terribile guerra Il 31° di linea, si segnalava a Talavera nel Portogallo, il 21° all'assedio di Tarragona, ma i reggimenti impegnati nella dura lotta erano una decina. Quanto ai napoletani, su più di 32.000 spediti nella penisola iberica, ne tornarono 9.000! Gl'italiani avevano mostrato tenace fedeltà a Napoleone proprio nel 1813. Purtroppo, per strana ironia della sorte, s'erano battuti in Germania e in Spagna, contro la guerra di liberazione dei popoli, quella strana guerra in cui la reazione europea poteva eccitare il sentimento nazionale contro il despota d'Europa! Gl'italiani avevano ben affermato le loro capacità militari, e numerosi generali s'erano resi illustri: italiano lo stesso Napoleone, e il più illustre dei suoi generali, il Massena, e poi una lunga serie: i piemontesi Campana, Serras, Gifflenga, Rusca e Fresia, i lombardi Lahoz, Pino, i fratelli Lechi, Mazzucchelli, Bonfanti, Teilié, gli emiliani Fontanelli, Severoli, Zucchi, il toscano D'Ambrosio, i fratelli Florestano e Guglielmo Pepe, il Carascosa, e l'enumerazione potrebbe continuare. All'infuori di Massena, nessuno superò il grado d divisione, ma non era possibile andare oltre nell''esercito del Rego italico e in quello napoletano che non avevano corpi d'armata; e quelli chhe si trovarono nei reggimenti francesi, vi erano entrati troppo tardi per fare una grande carriera. Dopo Austerlitz, il trentasettesimo bollettino della Grande Armata diceva fra l'altro: <<L'Imperatore ha spessissime volte ripetuto "i miei popoli italiani ricompariranno gloriosamente sulla scena del mondo. Pieni di spirito e di passione, essi possiedono tutte le doti e le qualità necessarie per essere ottimi soldati". I cannonieri della Guardia Reale italiana, alla battaglia di Austerlitz, si sono coperti di gloria ed hanno meritato l'ammirazione dei più vecchi cannonieri francesi. La Guardia Reale ha sempre marciato colla Guardia Imperiale e si è mostrata dappertutto degna di lei>>. E il 1° novembre al generale Fontanelli, che s'accingeva a tornare in patria coi resti della sua divisione, cui s'erano aggiunti tutti gl'italiani superstiti della Grande Armata, diceva: <<La loro fedeltà intemerata... la loro intrepida condotta, la costanza dimostrata fra i rovesci e le sventure di ogni specie, mi hanno grandemente commosso. Tutt ciò mi ha confermato che bolle sempre nelle vostre vene il sangue dei dominatori del mondo... Io partecipavo al giudizio di distima verso le truppe napoletane: esse mi hanno colmato di meraviglia a Lutzen, a Bautzen, in Danzica, a Lipsia e a Hanau. I famosi Sanniti, loro avi, non avrebbero combattuto con valore>>. Il generale inglese Wilson, il quale nel 1814, in Mantova, ebbe a dire a un gruppo d'ufficiali italiani e austriaci: <<L'esercito italico a Malojaroslavec mi sorprese per suo eroismo: 16.000 di quei bravi ne batterono 80.000 dell'esercito di Kutusov>>.

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domenica 28 ottobre 2018

Storia militare d'Italia. Il risveglio guerresco italiano (1796-1815). L'Italia nel 1815

Storia militare d'Italia

Il risveglio guerresco italiano (1796-1815)

L'Italia nel 1815


Napoleone Bonaparte 


Gli accordi e i patti del 1814-15 che coronavano la fine d'un periodo di ventidue anni di guerre quasi ininterrotte, sanzionando per l'Italia, fra la generale stanchezza, il triste tramonto d'una lunga serie di sacrifici e di speranze, ponevano i nostri patrioti nuovi e più gravi problemi. Le rosee speranze, del triennio 1796-98, d'un'Italia libera e unificata, seranze ancora alimmentate nel 1813-14 dai mendaci problemi degli alleati, erano svanite del tutto con lo scioglimento dell'esercito del Regno italico nell'estate del '14 e lo sfasciamento dell'esrcito napolteno nel maggio '15, dopo la battaglia di Tolentino. Sacrificata alla pace  europea era stata, dopo la Polonia, proprio l'Italia. I diplomatici cui si dovevano i trattati del '15 avevano inteso d'assicurare la tranquillità del continente, interponendo tra Austria e Francia una lunga fascia di Stati cuscinetti del mare del Nord al Mediterraneo. L'Italia aveva più che mai fatto le spese, che l'Austria era stata compensata largamente nella nostra penisola della sua rinunzia definitva al Belgio. Al predominio spagnolo, era subentrato in Italia il pesante predominio austriaco. Per l'Italia la pace europea rappresentava l'inizio d'una più dura servitù, resa più grave e dolorosa dalla costatazione dell'inutilità dei passati sacrifici, e proprio allorquando il sentimento nazionale sembrava aver fatto tanti progressi, affermandosi in larghi strati della popolazione. 
Nel trattato di Aquisgrana del 1748, nel periodo in cui si è soliti rilevare una rinnovata coscienza negl'italiani, una crescente insofferenza del dominio straniero, una brama d'autonomia, d'indipendenza, di liertà, un desiderio vivo di ricollegarsi al passato glorioso dopo altri due secoli di servitù, e di partecipare sempre più intensamente alla nuova vita spirituale europea: il sentimento di risorgere dopo la lunga prostrazione; e ciò anche se le nuove migliorri condizioni erano frutto, più che d'una straordinaria virtù, d'una serie di fortunate contingenze nello sviluppo della politica europea attraverso le sue guerre d'equilibrio. Nel 1748, le uniche parti d'Italia soggette allo straniero erano l'odierna Lombardia, meno le provincie di Bergamo e Brescia e la città di Crema, posseduta in gran parte dalla Svizzera; il Trentino e l'Alto Adige, appartenenti all'Impero o a Casa d'Austria, e la contea di Gorizia e di Trieste, domini di Casa d'Austria. La Svizzera possedeva ancora la parte del ducato di Milano occupata al principio del secolo XVI, durante la terribile crisi che aveva trascinato il florido Stato alla perdita dell'indipendenza; e la Casa d'Austria proseguiva nella sua lenta opera d'accerchiamento e di penetrazione ai danni della repubblica di Venezia. Lo Stato  sabaudo si era venuto estendendo nella Lombardia austriaca fino al Ticino; e se l'Austria aveva indubbiamente una forte posizione in Italia gli italiani potevano compiaccersi nel rilevare che Francia e Spagna erano definitivamente escluse da ogni dominio diretto sul nostro paese; non solo, ma a uno Stato italiano, ossia a Venezia, appartenevano la Dalmazia le isole Jonie; e il Piemonte si estendeva oltre le Alpi nella Savoia; e a un altro Stato italiano, quello del papa, apparteneva al di là delle Alpi, in terra francese, la contea d'Avignone. La Toscana. aveva perso da non molto la sua dinastia, e si trovava sotto una reggenza che governava in nome dei nuovi sovrani stranieri; e Napoli e la Sicilia avevano sì il loro sovrano, ma il ramo dei Borboni di Spagna e pur sempre legato a questa potenza; non v'era però da dubitare che le dinastie impiantatesi da poco in Italia si sarebbero ben presto acclimatate; perdendo il loro carattere forestiero. S' iniziava intanto un lungoo periodo di pace benefica e di prosperità, di riforme e di progresso spirituale. 
Coi trattati del 1815, gl'italiani, nonché vantare possessi oltremonte e oltremare, vedevano l'Inghilterra signora della Corsica, secolare dominio di Genova; ma, dovevano mirare dolenti e sgomenti quell'Austria che tante volte, sotto le bandiere francesi o del regno Italico o di quello di Napoli, avevano vinto, cresciuta straordinariamente, padrona di tutto il territorio dell'antica gloriosa repubblica di San Marco, con la Venezia, l'Istria e la Dalmazia; in possesso della Valtellina con Chiavenna, per tre secoli dei Grigioni; forte del diritto di guarnigipne al di là del Po. a Piacenza, a Ferrara e a Comacchio, e con principi austriaci a Parma, a Modena, in Francia. Era il funzioonamento medievale della penisola, proprio quando la tendenza generale portava alla formazione di grosse unità statali. Napoleone mai aveva voluto l'unità d'Italia, ma sotto il regime napoleonico l'Italia aveva pur ritrovato, dopo tanti secoli, una parvenza d'unità. All'infuori infatti della Sardegna, e della Sicilia, asilo dei Borboni e presidiata, insieme a Malta, dalla Gran Bretagna, tutta l'Italia era francese e divisa in sole tre parti: 1) le provincce annesse alla Francia (Piemonte, Liguria, Parma, Toscana, Umbria, Lazio), alle quali si potevano aggiungere le terre italiane facenti parte delle province illiriche, vera marca di confine del rinnovato impero di Carlo Magno (Gorizia, Trieste, Fiume e la Dalmazia); 2) il Regno Italico, unito per unione personale all'imperatore dei Francesi e governato dal vicerè suo figliastro (Lombardia con Alessandria, Novara e la Valtellina, Veneto, Trentino, Alto Adige fin poco sopra Bolzano e Merano, Modena, Legazioni, Marche); 3) il regno di Napoli dato al cognato di Napoleone, Gioacchino Murat. E, anche le parti in cui risultava divisa l'Italia erano fra loro ben poco separate; lo stesso sistema amministrativo: unità legislativa, uguaglianza di tuti i cittadini davanti alla legge, libertà privata, libertà di coscienza in questioni religiose, secolarizzazione dei beni ecclesiastici, queste caratteristiche del regimme francese erano comuni alle varie parti d'Italia e indubbiamente avevano preparato il terreno all'unità politica vera e propria. 
Bisognava ricominciare da capo. Pure uno Stato usciva ingrandito e rafforzato dala guerra e dalla lotta diplomatica che l'aveva conclusa ed era il Piemonte, l'unico Stato militare della penisola, ingrandito di Genova e della Liguria. Esso aveva dovuto rinunziare alla Lombardia, la grande aspirazione di Savoia; e minacciato da vicino alla preoccupane espansioe austriaca, era porrtato ad essere il naturale avversario dell'Austria, non solo per desiderio d'espansione e per sentimento patriottico della parte migliore della sua classe dirigente, ma per elementare necessità di difesa. Il Piemonte assumeva ora la stessa psizione che la repubblica dii Venezia aveva naturalmente assunto di fronte alla Spaagna, dopo la pace di Cateau-Cambrésis nel 1559.I vent'anni di lotte trascorse avevano rivelato in larga misua le risorte virtù militari degl'italiani e la loro capacità insurrezionali.

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sabato 27 ottobre 2018

Storia militare d'Italia. Prefazione

Storia militare d'Italia

Prefazione



La resurrezione spirituale che prende il nome di Risorgimento, iniziaosi nel secolo XVIII entro il grande movimento di idee d'Europa e passata dietro il decisivo impulso della Rivoluzione francese attraverso le grandi esprienze politiche del periodo repubblicano e napoleonico, portò al compimento dell'unità italiana attraverso una serie di cospirazioni, d'insurrezioni e di guerre. Gl'Italiani mostrarono le loro virtù e anche le lor manchevolezze: l'Italia non ha avuto infatti una lunga insurrezione perseguita con ferrea tenacia per anni e anni come quella delle colonie inglesi d'America, o della Spagna contro Napoleone, o della Grecia contro l'Impero ottomano; e neppure grandi guerre vittoriose come la Prussia contro l'Austria e contro la Francia. Le guerre italiane vantano episodi gloriosi, e le diverse e ripetute insurrezioni rappresentano la manifestazione più luminosa dell'eroismo e della capacità di sacrificio del popolo italiano. La stessa serie dei piccoli tentativi falliti e pur sempre rinnovsti rivela di non venire mai meno di giovani di disperata volontà d'azione e d'indomità tenacia. 
Tutta questa attività è inoltre accompagnta e seguita da un movimento di pensiero e da una letteratura di carattere politico vermente notevole; non solo, ma anche da una trattazione teorica di carattere militare nel più ampio senso, volta cioè a studiare le caratteristiche e le esigenze della guerra regolare, ma soprattutto il problema d'utilizzare le grandi forze vive della nazione, sia con gli eserciti di riservisti, sia con l'apporto delle guardie nazionali, sia infine con la grande insurrezione popolare e la guerra di bande. Se era difficile per i patrioti evocare il dedmone della rivoluzione e richiamare e indirizzare le forze occulte dell'intera nazione, sarebbe poi diventato oltremodo arduo anche per i capi degli eserciti regolari calcolare in termini strategici il valore e le incognite dell'azione insurrezionale e, se avversari, far fronte a un nemico tanto nuovo e diverso spesso inafferrabile. 
Guerre e insurrezione, sono pur sempre la manifestazine di forza attraverso la quale si attuano tanto spesso le maggiori conquiste della civiltà umana; e non vanno considerate soltanto come manifestazione di forza bruta, bensì come il portato di energie spirituali, affermazione di necessità politiche e sociali, capacità d'affrontare fatiche e pericoli, e spesso manifestazioni grandiose di spirito d'abnegazione. La guerra, non è soltanto la politica continuata coon latri mezzi, vale a dire la politica estera che sostituisce all'azione diplomatica la più rude azione degli eserciti; ma, come il Clausewitz lucidamente intuì, essa è l'espressione, quanto più volge verso la sua naturale forma dello sforzo di tutto il paese, d'ogni sua attività convogliata verso la grande lotta e l'altra meta. E la storia militare affonda le sue radici nella struttura economica, sociale e politica di uno Stato, e può essere un utile e forse necessario complemento della storia politica. Milizia e guerra non sono però un epifenomeno dell'economia, né il loro studio una branca della sociologia o della politica: economia, politica e guerra sono simultanee manifestazioni di un unico più profondo processo. 
Gli svolgimenti politici modificano i sistemi di reclutamento e il progresso tecnico favorisce la riunione di masse e il loro spostamento, e fornisce armi sempre più perfezionate. Ma è pur sempre l'intelligenza e dell'uomo di guerra che sceglie quanto il progresso tecnico gli offre per adattarlo ai suoi scopi, e a volte ne sollecita o provoca i perfezionamenti; e strategia e tattica, ossia movimento di masse e combattimento, non costituiscono solo un problema tecnico, di numero, di spazio, di tempo, ma sono nella loro intima sostanza arte, ossia intuito; ché l'azione di guerra è azione di uomini, che hanno passioni e desideri, coraggio e timore, necessità fisiche e morali; Clausewitz, la guerra è solcata continuamente e in ogni senso da motivi di carattere morale, sui quali il calcolo matematico non può applicarsi. Per questo la storia militare ha un campo suo, che non è per nulla soltanto tecnico, come ogni altra disciplina, preparazione e attitudine. 
Uno studio delle vicende militari nel secolo XIX, potrà aiutare a commprendere sempre meglio gli elementi di vita che l'Italia, divisa e lacera dopo tre secoli di servitù, conservava pur sempre in sé, e al tempo stesso le deficienze di educazione e preparazione politica e di sviluppo sociale ce inceppavano fatalmente e limitavano gli sforzi dei patrioti.

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giovedì 25 ottobre 2018

Storia militare d'Italia. Presentazione

Storia militare d'Italia

Presentazione


Luigi Salvatorelli


Piero Pieri 



Raccontò in occasione di una sua lezione Rrenzo de Felice che, ancora giovane ai primi passi nella carriera di storico e frequentatore di incontri e convegni di studio, era rimasto colpito dal fatto che due studiosi di riconosciuto valore come Luigi Salvatorelli e Piero Pieri si fossero tanto accaldati discutendo della prima guerra mondiale e delle origini del fascismo fino al punto di apparire a coloro che li ascoltavano quasi come due macchiette. De Felice si riferiva, a una veemente polemica pubblia che aveva avuto come protagonisti i due studiosi nel 1963 in occasione del XLI congresso nazionale dell'Istituto per la Storia del Risorgimento tenutosi a Trento dal 9 al 13 ottobre di quell'anno. I due appartenevano a mondi diversi: Salvatorelli era un neutralista giolittiano mentre Pieri un interventista democratico. Per quanto entrambi cercassero di supportare le proprie tesi con argomentazioni di carattere storico appariva evidente, secondo la testimonianza di De Felice, che essi discutevano fra di loro negli stessi termini e con la stessa passionalità delle polemiche della vigilia del primo conflitto mondiale. 

L'episodio, è di poco conto ma conferma il fatto che su tutta una generazione di storici la Grande Guerra, come venne chiamato allora il primo conflitto mondiale, ebbe importanza fondamentale nel'indirizzarne gli interessi storiografici e nell'influenzarne la produzione. 

Per alcuni studiosi - Niccolò Rodolico e Gioacchino Volpe - la vita in trincea, il richiamo ai valori che avevano caratterizzato il Risorgimento, la riflessione sul significato della guerra in atto la retorica stessa di un conflitto propagandato come ultima patta del processo unitario nazionele e, il contatto gomito a gomito con soldati provenienti da ogni ragione d'Italia e spesso incapaci di comunicare fra di loro per le differenza dialettali furono elementi che lo spinsero ad abbandonare o mettere, sia pur in qualche caso momentaneamente, da parte in proprio originiari interessi di natura storiografica per occuparsi delle storiche più recenti e riflettere sulle caratteristiche della storia nazionale e sulla funzione del conflitto come strumento di costruzione e consolidamento della identità nazionale.

Anche Piero Pieri, che apparteneva alla stessa generazione dei Rodolico e dei Volpe e che sarebbe divenuto in seguito il riconosciuto e indiscutibile patriarca della storia militare italiana, prese parte attiva al primo conflitto mondiale impegnato in prima linea. Figlio di un eminente studioso di glottologia, egli, che era noto a Sondrio il 20 agosto 1893 da una famiglia di origine toscana, aveva sempre nutrito un vivo interesse per lq questioni militari, tant'è che, appena prima di intraprendere gli studi universitari presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, aveva avuto una brevissima se pur negativa esperienza presso la Scuola Militare di Modena. Si era subito schierato nelle fila dell'interventismo democratico seguendo le orme del suo maestro, lo storico Gaetano Salvemini con il quale sarebbe rimasto legato, da un punto di vista umano e di riconosciuta discepolanza, per tutta la vita. 

Chiamato alle armi nel 1915, venne inquadrato come sottotenente  del battaglione Belluno facente parte del 7° reggimento degli alpini e, al comando di un plotone, fu inviato in prima linea sul fronte dolomitico nella guerra sulle Teofane nel corso della quale venne ferito e si guadagnò due medaglie al valore, una d'argento e una di bronzo. Alla fine dell'ottobre 1917, egli, promosso capitano, si trovò, al comando di una compagnia alpina di mitraglieri, coinvolto nelle fasi più drammatiche dell'offensiva austriaca culminata nella disastrosa sconnfitta a Caporetto. Catturato insieme ai suoi soldati, venne internato in diversi campi di prigiona e, infine, dopo un non riuscito tentativo di fuga, nel campo di punizione di Komarom e nei pressi di Linz. 

Alle proprie eperienze belliche Pieri avrebbe dedicato, due significativi lavori: il toccante saggio intitolato Un episodio di prigionia. La morte del capitano Enea Guarneri medaglia d'oro alpina, scritto nel 1919 ma pubblicato solo nel 1924 e il volume La nostra guerra sulle Tofane, edito nel 1947, più volte ristampato e di riconosciuta importanza, nello sterminato panorama pubblicistico di memorialista e storia militare, per l'attenta e critica utilizzazione di materiali di provenienza austriaca e tedesca che davano conto delle posizioni, delle scelte e delle ragioni del nemico. 

Rientrato nella vita civile, Pieri iniziò la carriera di insegnante dapprima nelle scuole secondarie di Firenze e poi nel collegio militare della Nunziatella a Napoli per approdare infine, dopo un periodo di insegnamento presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Messina, alla Facoltà di Magistero dell'Università di Torino dove insegnò storia romana e storia moderna e dove ricoprì più volte la carica di preside. Si spense il 16 dicembre 1979 a Pecetto Torinese, dove s'era stabilito negli ultimi anni quando la malattia e gli acciacchi di un'età ormai avanzata lo avevano costretto ad abbandonare gli studi storici e a delineare alcune proposte di lavoro, cui teneva in modo particolare, coma la curatela di un volume dell'epistolario di Giuseppe Garibaldi. L'ultimo suo volume, era stato una bella ed equilibrata bbiografia dedicata a Pietro Badoglio pubblicata qualche anno prima, nel 1974, e in seguito più volte ristampata. 

Gli iniziali interessi storiografici di Pieri erano stati indirizzati verso la storia medievale e moderna e verso il Risorgimento con lavori che, unendo la prospettiva della storia politica e della storia economico-giuridica secondo la lezione di Gaetano Salvemini, avrebbero aperto nuovi campi di indagine poi arati da altri illustri studiosi e continuatori da Walter Maturi a Nino Cortese fino a Ruggero Moscati. Tra questi lavori meritano di essere commentati La Restaurazione in Toscana 1814-1821 (1922), Intorno alla storia dell'arte della seta a Firenze (1927), Il Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1800 (1928). 

Nell'inizio degli anni Trenta, Pieri si dedicò quasi esclusivamente, alla storia militare della quale sarebbe divenuto ben presto il più autorevole studioso italiano. Era stato probabilmente inflenzato, in questa scelta, dalla lettura di suggestivi scritti di Carl von Clausewitz. a cominciare dal celebre trattato sulla guerra, e da quelli di Hans Dellbrück, uno studioso e uomo politico liberal - conservatore che aveva insegnato alla Humboldt-Universitat di Berlino e aveva postulato, proprio, la necessità di integrare la storia politica ed economica con quella militare. 

Frutto di questo nuovo interesse è, il poderoso lavoro su La crisi militare italiana nel Rinascimento, nei suoi rapporti colla crisi politica ed economica (1934) poi riproposto in edizione rivista e ampliata nel 1952 con il nuovo titolo Il Rinascimento e la crisi militare italiana: un'opera, che analizzava gli aspetti della crisi militare ittaliana alle soglie dell'era moderna sostenendo la tesi che essa era conseguenza di una crisi molto più vasta e complessa, non limitata quindi all'aspetto purramente militare, una crisi insomma che intercessava l'intero sistama degli Stati italiani di quel periodo. Pieri, in aperta polemica con gran parte della storiografia del tempo che attribuiva a una cronica debolezza militare degli antichi Stati italiani dell'età comunale e rinascimentale e la responsabilità della <<crisi della libertà italiana>>, chiamava in causa questioni politiche, economiche, sociali rivendicando, al tempo stesso, tanto l'efficienza quanto la preparazione tecnico-militare delle milizie e dei loro condottieri. Convinto della necessità di studiare l'arte della guerra, Pieri faceva vedere plasticamente come, fra la seconda metà del XV secoli e gli albori del XVI, l'irruzzione degli eserciti spagnoli, francesi e imperiali nell'Italia del tempo e la perdita della indipendenza politica in tanta parte della penisola fossero fenomeni spiegabili non tanto in termini di tecnica militare dal momento che in tutta l'Europa del tempo degli italiani erano considerati ottimi soldati quanto piuttosto come conseguenza della intrinseca debolezza istituzionale dei vecchi Stati. All'epoca il volume di Pieri venne recensito entusiasticamente da Adolfo Amodeo sulla rivista crociata La Critica e da allora il giudizio sull'importanza di quell'opera non è mutato tant'è che, in tempi recenti, ha osservato giustamente Alessandro Barbero che in essa era contenuta una <<intuizione nuova>> in conntrasto col <<luogo comune da sempre ripetuto>> relativo alla <<inferiorità militare>> degli italiani del tempo: una intuizione che <<si può considerare ormai come un dato acquisito del panorama storiografico e, forse, in qualche misura, della coscienza comune>>. 

Man mano che, con l'andar degli anni, andava spostando la propria attenzione di studioso verso il Risorgimento e l'età contemporanea Pieri andò concentrandosi ance sugli sviluppi del <<pensiero militare>>, sugli aspetti teorici cioè legati alla tematica bellica e insurrezionale sia durante i secoli della dominazione straniera sia durante l'età risorgimentale. In questo quadro e in questo senso il volume Guerra e politica negli scrittori italiani che egli avrebbe pubblicato nel 1955 rimane ancora oggi un testo insuperato sia per informazione sia per la finezza nell'analisi critica e nelle conclusioni. Egli sviluppò una precisa vsione della storia militare intesa non soltanto come una disciplina delle batteglie e delle guerre ovvero alla descrizione di scelte tattiche o strategiche. 

Che cosa, secondo Pieri, sia e come dabba intendersi la storia militare e quale impotenza essa rivesta nel più vasto terreno della storia generale lo spiega assai bene questo passaggio tratto dalla prefazione alla sua opera forse più conosciuta e apprezzata, la Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni (1962), un passaggio nel quale l'attività bellica o anche insurrezionale non viene demonizzata sulla base di un giudizio di valore etico-politico o di un pacifismo idoelogico ma viene analizzata con asetticità critica e scientifica: <<Guerra e insurrezione sono pur sempre la manifestazione di forza attraverso la quale si attuano tanto spesso le maggiori conquiste della civiltà umana; e non vanno considerate soltanto come manifestazioni di forza bruta, bensì come il portato d'energie spirituali, affermazione di necessità politiche e sociali, capacità d'affrontare fatiche e pericoli e spesso manifestazioni grandiose di spirito d'abnegazione. La guerra, non è soltanto la politica continuata con altri mezzi, vale a dire la politica estera che sostituisce all'azione diplomatica la più rude azione degli eserciti, ma, come il Clauswitz lucidamente intuì, essa è l'espressione, quanto più volge verso la sua naturale forma, dello sforzo di tutto il paese, d'ogni sua attività convogliata verso la grande lotta e l'alta meta. Alla luce di tali considerazioni e in questo quadro, la storia militare finiva per avere un proprio campo, che non era <<per nulla soltanto tecnico>> ma richiedeva <<come ogni altra disciplina, preparazione e attitudine>>. In altra occasione, poi, parlando al primo congresso nazionale di scienza storiche organizzato dalla Società degli Storici Italiani a Perugia nell'ottobre 1967, Pieri precisò ancora meglio la sua idea di storia militare richiamando ancora una volta Clausewitz: <<la storia militare non deve limitarsi a studiare le caratteristiche e le esigenze della guera regolare, e fin dove questa abbia potuto o saputo utilizzare le forze vive della nazione, ma pur anche la guerra insurrezionale nelle sue svariate forme; e deve pure indagare l'attività teoretica che accompagna i vasti problemi, sia per meglio compreenderli che per giungere a soluzioni nuove. La guerra è tutta intersecata, da motivi d'indole psicologica e spirituale, che sfuggono ad ogni preciso calcolo matematico, e che viceversa ne influenzano in modo spesso decisivo gli sviluppi; e sono motivi non sempre facili da individuare e da valutare nelle loro estrinsecazioni e nella loro reale efficienza>>. 

Questa concezione, <<globale e non esclusivamente tecnica>> di una storia militare, intesa come ideale punto di decantazione o punto di raccordo fra storia politica, economico-giuridica, sociale, culturale e via dicendo,e, per ciò stesso, capace di aiutare la comprensione delle vicende storiche e dei comportamenti individuali; questa concezione, si diceva, informa le opere maggiori di Pieri, a cominciare, dalla ricordata Storia militare del Risorgimento, Guerre e insurrezioni apparsa in un momento nel quale la letteratura storiografica sul periodo risorgimentale aveva ormai, da tempo, superato la fase della esaltazione agiografica o mitologica ovvero quella della strumentalizzazione politica dello sforzo bellico e aveva imboccato la strada di una consapevole revisione critica. 

Il volume di pieri sulle vicende militari del Risrogimento, si caratterizza, già a un primo sguardo, non tanto come ricostruzione oleografica della lunga stagione risorgimentale quanto piuttosto come storia critica, capace di sottolinearne sia i pregi sia le manchevolezze, di tutto il processo di unificazione nazionale visto non soltanto attraverso la sequenza delle insurrezioni e dei conflitti ma anche nei suoi aspetti morali, politici, economici, sociali. Si tratta di un'opera che, a pieno titolo, si inserisce nel dibattito storiografico sulla natura e sulle caratteristiche del Risorgimento, sul fatto cioè se esso sia stato opera di minoranze o frutto di iniziativa popolare, oltreché, naturalmente, sul momento genetico dello  stesso. Anche per Pieri il Risorgimento fu, certo, un fatto italiano, un grande fatto italiano, che, prima ancora di essere militare, aveva il carattere di una vera e propria <<resurrezione spirituale>> iniziata nel diciottesimo secolo all'interno del <<grande movimento d'idee d'Europa e passata dietro il decisivo impulso della Rivoluzione francese attravero le grandi esperienze politiche del periodo repubblicano e napoleonico>>. Così, la Storia militare del Risorgimento prende le mosse proprio dal <<risveglio guerresco>> dell'Italia napoleonica e giunge fino alle soglie del completamento dell'unità nazionale con la presa di Roma passando per le cospirazioni e le rivoluzioni degli anni venti e trenta, le guerre d'indipendenza, la liberazione del Mezzogiorno e via dicendo. 

Una pregevole caratteristica del lavoro di Pieri è l'attenzione  riservata alla discussioni teoriche sulle questioni militari e sulle caratteristiche stesse del tipo di guerra combattuto o da combattere. Pieri analizza il <<trattato>>, per certi versi utopico, del Conte Angelo Bianco di Saint-Jorioz sulla guerriglia per piccole bande secondo un modello, fatto proprio di Giuseppe Mazzini, che, ispirandosi alle lotte popolari antifrancesi del periodo napoleonico, puntava a un'opera di continuo logoramento delle milizie austriache. O, ancora, si sofferma sugli scritti di Guglielmo Pepe, di Giacomo Durando, di Cesare Balbo pper non dire, com'è ovvio, di Carlo Pisacane. E via dicendo. L'interesse per il dibattito teorico è accompagnato, oltre che dalla ricostruzione dei singoli eventi militari e dei loro precedenti politico-diplomatici, da una sempre equilibrata analisi dello sviluppo alla fase preunitaria a quella unitaria, e degli eserciti degli Stati pre-unitari, a cominciare da quello borbonico. 

Nell'ottica di Pieri le guerre del Risorgimento, culminate nelle <<due fasi luminose del 1848-49 e del 1860>> fecero della <<rivoluzione italiana>> una <<singolare caratteristica della storia europea del secolo XIX>>. Secondo un illustre studioso di storia politica e diplomatica come Francesco Valsecchi, il Risorgimento fu l'espressione italiana del più generale fenomeno europeo della cosiddetta <rivelazione delle nazionalità>>. A tale visione, in un certo senso, si ricollega anche la lettura del processo di unificazione nazionale fatta da Pieri anche se, nella sua valutazione, l'Italia non ebbe <<nel Risorgimento una sua grande guerra, come quella della Prussia nel 1866 e nel 1870, né una grande insurrezione come quella dell'America, della Spagna e della Grecia>> se non dopo mezzo secolo di vita unitaria con il conflitto del 1915-1918. 

Della Grande Guerra Piero Pieri cominciò a internarsi come studioso molto presto. Nell'agosto 1919, egli pubblicò, pur senza firmarli, nei numeri 34 e 35 del settimanale L'unità diretto dal suo maestro Gaetano Salvemini due lunghi articoli, che nel loro insieme costituiscono un vero e proprio saggio, dedicati a La rotta di Caporetto veiva definito, <<una grande malattia dell'Italia>> causata, in primo luogo, dal <<preventivo indebolimento generale organismo>> e, in secondo luogo, da un <<attacco di germi nemici, che nel campo dell'organismo, preventivamente indebolito, trovano le condizioni favorevoli per sviluppare la malattia>>. La tragedia di Caporetto intervenne  in un clima esacerbato dalla propaganda disfattistta, in una situazione di stanchezza generale dellla quale, però, sarebbe stato <<difficile dare la responsbilità diretta a determinate persone o gruppi sociali>>. Le cause della catastrofe non erano riconducibili alla troppo semplicistica e ingiusta spiegazione del cosiddetto <<sciopero militare>> anche perché, prima di cedere al nemico, molti battaglioni avevano dato prove di eroico valore. La verità è che, secondo Pieri, la massima responsabilità della sconfitta spettava <<al Comando supremo, al Comando della II Armata, e in generale alla gerarchia militare, che condusse male la guerra fra il 1915 e il 1917, non seppe riparare in tempo al male avvenuto per circoscriverne l'entità>>. Il saggio di Pieri illustrare acuratamente disposizione e movimenti delle truppe al momento della dodicesima battaglia dell'Isonzo e analizza con accuratezza i precedenti di Caporetto sottolineando gli errori iniziali, il mancato sfruttamento dei successi tattici, lo stato morela delle truppe, le condizioni morali del soldato e via dicendo. Era, insomma, un vero e proprio contributo scientifico. 

Negli anni immediatamente successivi e durante l'intero ventennio fascista Pieri continuò ad occuparsi della Grande Guerra con studi settoriali e con ampie recensioni di lavori italiani ed esteri ma non scrisse un libro di sintesi. Probabilmente ciò sarebbe stato dovuto al fatto che egli, antifascista convinto e legato a storico come Gaetano Salvemini  e Adolfo Omodeo, volesse evitare di contribuire alla strumentalizzazione fascista della Grande Guerra. Se, da un lato, il patriottismo e l'eroismo di Pieri, insieme alla sua convinzione sulla necessità storica della Grande Guerra come evento conclusivo del processo di unificazione nazionale, avrebbero potuto apparire funzionali alla miizzazione fascista del conflitto, da un altro lato, il suo rifiuto delle posizioni naturalistiche, la sua attenzione alle ragioni del nemico, la sua lontananza dall'idea fascista della guerra mondiale come levatrice di una nuova Italia diversa e antietica rispetto all'Italia liberale e la sua stessa visione della guerra come guerra di popolo erano evidenti tanto nei saggi quanto nelle recensioni che egli andava pubblicando. Attraverso tutti questi lavori settoriali e queste riflessioni sulla letteratura storiografica, Pieri andava affinando la sua concezione di una storia militare non limitata alla ricostruzione delle operazioni belliche ma attenta anche alla attività delle strutture di comando e all'organizzazione degli eserciti, nonché alla politica interna e, soprattutto, alla dinamica delle relazioni internazionali. 

Il lavoro di sintesi sulla Grande Guerra venne scritto da Pieri verso la fine degli anni cinquanta come capitolo di una bella e fortunata Storia d'Italia in cinque volumi coordinata da Nino Valeri e fu ripreso e pubblicato autonomamente, in versione rivista e amplitata, nel 1965 con il titolo L'Italia nella prima guerra mondiale. E si tratta di un lavoro che resta ancor oggi, a diversi decenni della sua stesura, del tutto insuperato. Un lavoro, che è in primo luogo di storia militare propriamente detta ma che, al tempo stesso, approfondisce i temi della storia politica, della storia sociale e, financo, della storia diplomatica. Sin dalle primissime pagine del libro, viene messo in luce, attraverso il richiamo al fatto che  il conflitto era scoppiato per il venir meno del <<nuovo equilibrio europeo>> sorto nel 1871 dopo la guerra franco-prussiana, il carattere epocale di un evento destinato a incidere sul futuro politico dell'Europa del tempo. E, vengono analizzati sia il sottile e sotterraneo lavorio diplomatico di un'Italia sottoposta alle pressioni dei paesi belligeranti maa decisa a fare una scelta congruente con impegni internazionali e interessi nazionali, sia lo scontro fra i neutralisti e interventisti sfociato infine in quelle <<radiose giornate>> del maggio 1915 che risvegliarono <<in molta parte della borghesia e delle stesse masse popolari gli impeti più generosi e le tendenze più nobili>>. La guerra, appariva a Pieri necessaria per il completamento del processo di unificazione nazionale. Essa è narrata, dal punto di vista della tattica e della strategia militari, in L'Italia nella prima guerra mondiale attraverso dei piani militari contrapposti, dei dissidi interni al Comando supremo e agli alti comandi. I giudizi sui generali cui era affidato il comando delle operazioni sono particolarmente equilibrati come mostrano, per esempio, le pagine dedicate alla figura di Luigi Cadorna, <<uomo indubbiamente notevole>> e <<personalità di rilievo>> che <<nel legame fra guerrra e politica estera aveva avuto quasi sempre intuizioni felicissime>> ma che aveva perduto la fiducia dei combattenti, per <<una guerra condotta con metodi tattici inadeguati, rudimentali, con sperpero di vite umane, sperequazioni grandi nei sacrifici e nei premi, mancanza  di superiore umanità>> e, soprattutto, <<cattivo governo anche dei quadri superiori>> e <<uno stato d'incertezza, quasi di terrore, d'insincerità nel rapporto gerarchico quanto mai pernicioso>>. La salvezza dell'Italia dopo la catastrofe di Caporetto fu dovuta, prima ancora e più che alla sostituzione di Cadorna con Armando Diaz, al valore e alla abnegazione degli italiani: <<L'Italia doveva salvarsi e trionfare delle manchevolezze degli organi militari e politici, innanzitutto per le forze vive e sane che mostrava ora, dopo cinquanta anni di libera vita unitaria, di saper generosamente sprigionare dal suo seno, nei momenti decisivi la sua nuova esistenza>>. Nella Grande Guerra, l'Italia <<aveva sopportato virilmente l'immeritata sciagura di Caporetto e perseverato nella lotta fino allo sfacelo della grande potenza avversaria>> sarebbe uscita <<più di tutte le potenze europee vincitrice>> perché aveva soddisfatto <<le sue operazioni nazionali e di sicurezza>>. 

Per quanto dovesse, davvero molto al magistero storiografico di Salvemini, Pieri fu uno studioso che, per latitudine di interessi e pluralità di approcci metodologici, non appare incasellabile in una precisa scuola storiografica. Il suo istintivo eclettismo e l'influenza  del paradigma storicistico mutuato soprattutto da Delbrück che spinsero verso un modello, di storiografia militare che univa la dimensione tecnica e quella economico-giuridica a quella politica. 

Per quantoo dovesse davvero molto al magistero storiografico di Salvemini, Pieri fu uno studioso che per latitudine di interessi e pluralità di approcci metodologici, non appare incasellabile in una precis scuola storiografica. Il suo istintivo eclettismo e l'influenza del paradigma storicistico mutuato soprattutto da Delbrück lo spinsero verso un modello, di storiografia militare che univa la dimensione tecnica a quella economico-giuridica e a quella politica. Per usare le parole di un altro grande studioso di storia militare, Raimondo Luraghi, quest'uomo <<di innata modestia>> si assicurò <<ben meritatamente una fama elevata e duratura tra gli studiosi d'Europa e non solo d'Europa>>. 

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venerdì 19 ottobre 2018

L'Inquisizione in Italia. Gli inquisitori nella provincia della Marca trevigiana

L'INQUISIZIONE IN ITALIA 

L'eliminazione degli ultimi catari nel secondo Duecento

La lotta finale contro i catari

Gli inquisitori nella provincia della Marca trevigiana



L'ufficio inquisitoriale fu tenuto inzialmente dai domenicani e nel 1254 passò ai frati minori, ma è possibile ricostruire la serie degli inquisitori francescani soltanto per una ventina di nomi e con date discontinue e parziali dal 1262 e al 1308; queste date indicano le presenze documentate, non la durata effettiva del servizio: 

fra Florasio da Vicenza 1262-12632 
fra Bartolomeo de Corradino 1262-1263, 1269
fra Rufino 1263
fra Nascimbene 1269
fra Timidio Spongati da Verona (1269?), 1273-1275 (o 1276?)
fra Agostino 1276 (o prima del 1276)
fra Marco da Mantova (1276-1278?), 1282
fra Filippo Bonacolsi da Mantova 1276-1278, 1280, 1282, 1289
fra Alessio da Mantova 1279-1281
fra Bartolomeo Mascara da Padova 1282, 1285
fra Francesco da Trissino 1282, 1287-1290, 1295-1298
fra Bonagiunta da Mantova 1289-1292
fra Giuliano da Padova 1289, 1291-1293
fra Alessandro Novello da Treviso 1293-1294
fra Antonio de Luca 1293-1298
fra Pietrobuono Brusemini da Padova 1296-1298
fra Costantino da Vicenza 1297
fra Dondedeo da Mantova 1298
fra Pietro da Bassano 1298
fra Boninsegna da Trento 1298-1302
fra Antonio da Padova 1300-1302
fra Aiulfo da Vicenza 1304-1305
fra Petricino da Mantova 1306-1307
fra Ugo d'Arquà 1308

Gli inquisitori avevano competenza su tutto il territorio della provincia francescana, e quindi si spostavano da una parte all'altra e per la loro attività. In ogni diocesi esisteva una sede nel convento principale della città dove l'inquisitore sostava, come fu certamente a Padova, Vicenza, Venezia, Conegliano, Verona, Treviso. Inoltre nelle sedi pià importanti di solito risiedeva stabilmente un vicario, che curava l'amministrazione dei beni, accoglieva le confessioni degli eretici e svolgeva altre funzioni giudiziarie. Il posto di vicario fungeva spesso da gradinoo per accedere al pieno ufficio o veniva coperto da un ex inquisitore in attesa di venir nominato di nuovo, e questo dava una certa continuità all'opera di contro sull'eresia. Nel quarantennio preso in considerazione gli inquisitori rilevanti furono sei o sette, <<ben affiatati tra loro, potenti e a volte persino prepotenti>>, che gestirono l'ufficio non tanto in funzione della salvaguardia della fede, quanto dei propri interessi di carriera. Furono un piccolo e potente gruppo di potere all'interno del 500-600 frati della provincia sparsi in più di 33 conventi. 
Le spese correnti dell'ufficio infatti dovevano essere coperte dall'inquisitore, e per questo tra le pene comminate erano numerose le multe pecuniarie e le confische dei beni di eretici defunti, risultano rarissime le esecuzioni capitali o le condanne al carcere. Alla fine del Duecento si ebbero molti prcessi postumi contro famiglie ricche e potenti, in particolare a Padova e Vicenza, nel periodo in cui furono inquisitori prevalentemente frati padovani, nominati dal ministro provinciale fra Bartolomeo Mascara da Padova (1289-1299), che spendevano indebitamente una parte delle entrate èer isi personali, favori e parenti e donativi secolari. Negli anni immediatamente precedenti gli inquisitori erano stati prevalentemente mmantovani sotto l'influsso della forte personalità di fra Filippo Bonacolsi da Mantova (1276-1289). Gli inquisitori di origine padovana sono criticai e valutati negativamente dagli storici oggi, ma sembra che all'eppoca fossero ben accettati dai contemporanei, che anche nel periodo delle ricorrenti malversazioni continuarono a lasciare loro donativi nei testamenti, a collaborare con loro a livello istituzionale e talvolta perfino li difesero dalle fondate accuse di abusi amministrativi. 
Una lieve descrizione della loro attività fa capire molto bene che cosa facessero nel complesso, e allo stesso tempo mette in evidenza quanto grande sia la frammentazione delle fonti. Fra Florasio cercò per lo più inutilmente di far inserire le norme antieretiche negli statuti dedlle cità, ci riuscì solo a Verona e alla fine dovette lasciare l'incarico trasferendosi a Roma. Fra Bartolomeo da Corradino sostenne una vivace contesa con il vescovo di Treviso per questioni di competenza, vendette ben 2 eretici e forse fu lui a condannare Spera, già damigella della marchesa d'Este, bruciata viva come catara a Verona nel 1269 circa; fra Rufino e fra Nascimbene furonnoo suoi conquisitori. Fra Timidio cercò invano di farsi consegnare un eretico arrestato a Lazise, vicino alla grossa comunità catara di Sirmione, e divenne qualche anno dopo vescovo di Verona. Fra Agostino si occupò dei catari di Sirmione. Fra Marco da Mantova vendette i beni di una eretica. Fra Alessio da Mantova intervenne contro il podestà di Padova perché troppo remissivo verso i catari, contro il vescovo della stessa città e poi contro il vescovo di Vicenza, che aveva favorito la liberaione di un vescovo cataro; a Treviso vendette i beni di 7 eretici. Fra Filippo da Mantovs vendette i eni di 3 eretici, di cui 2 donne, condannò un eretico già defunto e nominò notai inquisitoriali due cittadini veronesi. Nel 1289 convinse il governo ad accettare la presenza di un inquisitore a Venezia e divenne infine vescovo di Trento. 
Fra Filipp Bonacolsi è più noto per aver partecipato alla spedizione militare che ebbe luogo il 12 novembre 1276 contro glieretici di Sirmione, condotta dal vescovo di Verona fra Timidiol, da Pinamonte Bonacolsi e da Alberto della Scala, durante la quale vennero arrestati 166 catari, poi processati e bruciati nell'arena di Verona il 13 febbraio 1278 con l'aggiunta di un'altra quarantina di dissidenti. Le vicende di questa terribile esecuzione, la più grande avvenuta per eresia in un solo giorno e probabilmente anche la più grande in assoluto in Italia, sonoracchiuse nelle scarne righe di una cronaca veronese che copre gli anni 1259-1306, attribuita a un membro della famiglia De Roamno: le autorità appena elencate

presero 166 tra eretici ed eretiche che furono condotti a Verona per volontà e beneplacito del signor Mastino, che era allora signore di Verona. Nel 1278, la domenica 13 febbraio, nell'arena di Verona furono bruciati circa duecento patarini di quelli che erano stati presi a Sirmione e fra Filippo, figlio del signor Pinemonte, era l'esecutore. 

Un'altra cronachetta scaligera è ancora più laconica e fissa il rogo nell'anno 1276, dimezzando il numero dei condannati: <<In quest'anno cento eretici e patarini da Sirmione furono bruciati nell'arena>>. La ferocia di questa esecuzione di massa conrasta con i dati delle condanne capitali nella provincia della Marca trevigiana presenti nelle Colectiorae per tutta la metà del Duecento: a quella veronese di Spera se ne aggiunge solo un'altra, quella di Ugolino da Reggio, bruciato vivo sotto l'inquisitore fra Boninsegna alla fine del secolo. 
Continando la serie degli inquisitori, fra Bartolomeo Mascara nel 1282 e nel 1285 vendette beni di 3 eretici, facendo la fortuna di un proprio parente, e fu ministro provinciale per almenoun decennio, dal 1289 al 1299, periodo in cui nomnò inquisitori alcuni frati che sarebbero risultati indegni affaristi. Fra Bonagiunta, assieme a fra Giuliano da Padova, denunciò al papa le autorità veneziane che impedivano il funzionamento corrente dell'ufficio, ma a sua volta venne denunciato da un abitante di Venezia, che era stato citato a comparire fuori dai confini della diocesi. Fra Bonagiunta condannò  eretici, fra Giuliano altri 2, ma continuò a vendere i beni di un terzo eretico anche dopo la fine del suo incarico e cercò di arricchire i propri nipoti estorcendo denaro a un quarto. 
Il gruppo di inquisitori della Marca trevigiana con più determinazione è quello della fine del Duecento: quasi tutti originari del Padovano, nominati dal provinciale fra Bartolomeo Masccara. In questo periodo gli inquisitori sono contemporaneamente tre o anche quattro e parecchie sedi vicariali diventano uffici stabili: Padova, Venezia, Viccenza. Verona, Conegliano. Confische e vendite di beni di eretici: fra Francesco da Trissino 17 casi, fra Alessandro da Treviso 9 (divenne poi vescovo di Feltre e Belluno), fra Antonio de Luca 3, fra Antonio da Padova (da non confondere con l'omonino santo) 20 casi, fra Pietrobuono da Padova 11, fra Dondeo 3, fra Boninsegna da Trento 14, fra Aiulfo 8, fra Paolino 4, fra Pietricinio 4. I documenti riportano quasi solo il nome del processo e il valore dei beni venduti, che varia di molto: da 3, 4, 12 lire di piccoli a 400, 300, 500, per arrivare a 1.000, 2.000, 1.024, 1.500 e in qualche caso a 4.000 e 6.000 lire di piccoli, ma anche 212 fiorini d'oro. Dalle indicazioni dei beni  venduti dagli inquisitori a Padova si arguisce che le confische riguardavano case, masi, molti terreni, un mulino, patrimoni cioè di grande valore, ma le cifre basse di altri casi fanno supporre beni mobili o immobili di poco conto: ad esempio 4,44, 30, 40 soldi di bagattini, 7, 11, 200, 2, 150 lire di bagattini 3, 5, 4, 10, 25 soldi grossi veneti. I terreni non venivano soltanto venduti, ma anche dti a livello e quindi producevano entrate fisse e continuative. 
Pochi eretici e molti soldi tra le mani erano una grossa tentazione per gli inquisitori, anche se votati alla povertà personale come già aveva intuito il capitolo generale di Lione del 1272. La tentazione si trasformò in malvesazione nell'ultimo gruppo di inquisitori venuti dalla lista precedente, tanto che ci furono due severe inchieste papali contro di loro nel 1302 e nel 1308. I giudici speciali inviati da Bonifacio VIII e da Clemente V raccolsero abbondanti dati sulla gestione economica, conservati a Roma nelle Collectiorae dell'Archivio Segreto Vaticano, mentre i verbali dei processi tenuti nelle sedi locali sono quasi tutti scomparsi nel corso dei secoli. 
Poche altre nootizie, anche queste frammentarie, si possono ricavare da fonti di diverso genere su individui processati o sospettati, sulle loto dottrine e anche sulle condanne capitali. Oltre a quelli sopra indicati, roghi di eretici ebbero luogo a Verona dal 21 al 23 luglio 1233 (60 uomini e donne), a Vicenza verso il 1260 (i diaconi catari Olderico de Marola e Tolomeo, con altri 8), a Padova nel 1272 (2 donne), sempre a Padova all'inizio del Trecento (22 dolciniani).

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mercoledì 17 ottobre 2018

L'Inquisizione in Italia. La nuova organizzazione dell'ufficio inquisitoriale

L'INQUISIZIONE IN ITALIA 

L'eliminazione degli ultimi catari nel secondo Duecento

La lotta finale contro i catari

La nuova organizzazione dell'ufficio inquisitoriale



La nuova organizzazione della rete inquisitoriale in Italia fu stabilita da Innocenzo IV con la lettera Cum super inquisitione dell'8 giugno 1254. Vennero istituiti sotto grandi distretti: Lombardia e Regno di Napoli affidati ai domenicani; Marca trevigiana, Romagna, Tosccana, Umbria, Lazio affidati per la prima volta ai frati minori. I motivi di questa sostituzione dei domenicani con i francescani nella maggior parte delle sedi inquisitoriali non sono chiari: forse si cercava di avviare in questo modo alla ostilità che i primi avevano suscitato con il loro rigore, forse il papa voleva servirsi anche della popolarità e della competenza dei secondi nella lotta così importante contro i catari. Il <<progetto di persecuzione sistematica dell'eresia>> atuato da Innocenzo IV infati utilizzò le strutture provinciali degli ordini mendicanti, accomunando la responsabilità dei priori e ministri provinciali e degli inquisitori e determinando la fine pratica di quella poca collaborazione tre vescovi e inquisitori che pur c'era stata. Ora gli inquisitori venivno in genere nominati dai superiori provinciali e cominciavano a operare come titolari di una struttura istituzionale interna all'ordine. 
Nella Lombardia domenicana, che si estendeva da Bologna a Ferrara fino alla Marca di Genova e al Piemonte, oltre naturalmente alla odierna Lombrdia, all'inizio gli inquisitori erano quattro, ma nel 1256 con la bolla Olim presentientes felicis furono portati a otto e furono dotati di uuna maggiore autonomia nei confronti dei vescovi. Nel Regno di Napoli, Campania, Abruzzo, Puglia, Calabira e Sicilia, l'azione antiereticale fu proomossa da Carlo d'Angiò dopo la battaglia di Benvenuto nel 1268 con l'appoggio concesso a quattro inquissitori domenicani, seguendo le linee adottate nel Tolosano dal fratello Alfonso, conte di Potiers e Tolosa, ce aveva fatto riservare le entrate delle confische inquisitoriali alle cose regie. 
Nella Marca Trevigiana, che comprendeva tutto il Veneto e il Friuli, si ha notizia di due inquisitori nominati a Venezia nel 1251, ma in realtà l'innquisitore poté operare nella capitale della Serenissima Repubblica soltanto dal 1289. Il papa delegò i francescani per tutta la provincia nel 1254, ma solo dal 1262 si ha l'elenco dei loro nomi. 
Nella Romagna vi fu un solo inquisitore fino al 1259, poi due. Anche nelle Marche l'inquisitore fu unico fino al 1258, e in seguito i documenti pontifici si rivolgono agli inquisitori al plurale. In Toscana il papa nel 1254 autorizzò il provinciale a nominare due inquisitori, ma si conoscce il nome di uno di loro  solamente nel 1258. fra Giovanni Oliva, che fu molto attivo tr Siena, Montieti, San Gimignano, Firenze, altri inquisitori sono nti più che altro per i contrasti con i comuni di orientamento sia gibellino sia guelfo. Nel Lazio gli inquisitori furono due fin dall'inizio e in Umbria a partire dal 1258, talvolta avevano competenza sulle due province, come fra Andrea da Todi, attivo tra 1259 e 1262. Particolare rilievo ebbe l'attiva di fra Bartolomeo da Amelia e fra Benvenuto da Orvieto nel 1268-1269 a Orvieto: essi emisero sentenze contro 87 persone tra perfetti catari, credenti, fautori e ricercatori di eretici recidivi; le pene inflitte comprendevano inabilitazioni, confische di beni, multe, pellegrinaggi, distruzione delle cose, bando, carcere, ma nessuna condanna capitale. 
In generale si può rilevare una ritrosia iniziale dei francescani a impegnarsi nel nuovo compito: durante il generalato di fra Giovanni da Parma (1247-1257) presero parte all'attività inquisitoriale solo marginalmente, mentre vi furono pienamente implicati durante il generalato di fra Bonaventura (1257-1274), soprattutto a partire dal 1258. Alessandro IV nei due anni e mezzo che seguirono questa data rivolse oltre ottanta bolle agli inquisitori francescani, segno che solo allora questi sostituirono veramente i domenicani nei distretti loro assegnati. L'appoggio pieno dei francescani nella lotta contro i catari dipese probabilmente da più fattori: dalla volontà di cancellare ogni dubbio di eterodossia, dopo che lo stesso fra Giovanni da Parma era stato accusato di gioachinismo, dalla durezza con cui la Bonaventura trattava le questioni della fede e da una probabile ambizione ed emulazione nei confronti dell'altro ordine mendicante. Le scelte di fra Bonaventura furono condivise dall'ordine, che cercò a ogni modo di stabilire dei controlli sul potere degli inquisitori, come dimosrano le norme approvate nel capitolo generale di Lione del 1272: esse prevedevano che gli inquisitori rendessero conto delle entrate e delle spese dell'ufficio ai capitali provinciali, rafforzando così i legami istituzionali tra inquisitori e ordine. 
Non è facile delineare quale fosse in concreto l'atttività repressiva esercitata contro i catari e gli altri eretici. Nella generale carenza di studi sistematici sull'Inquisizione medievale in Italia, sembra accertato che i casi di grande attività come Orvieto o a Verona fossero sporadici, e che solo raramente i processi si concludessero con i roghi. Gli storici tuttavia oscilano tra il ritenere <<piuttosto modesta>> l'attività corrente degli inquisitori, punteggiate da scontri con le autoità secoolari, e il ritenerla sostenuta e decisa. L'opposto giudizio dipende da opzioni generali diverse, ma ance da una diversa valutazione degli stessi scarsi documenti. E' molto utile quindi entrare nel dettaglio per vedere direttamente quali sono i dati disponibili.

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lunedì 15 ottobre 2018

L'Inquisizione in Italia. L'eliminazione degli ultimi catari nel secondo Duecento. La lotta finale contro i catari

L'INQUISIZIONE IN ITALIA 



L'eliminazione degli ultimi catari nel secondo Duecento

Dopo l'incerto ventennio iniziale, gli inquisitori generarono con amggior intensità in Italia nella seconda metà del Duecento, sotto l'urgenza della grande lotta conro i catari. Per l'ufficio inquisitoriale questo fu un periodo d'oro, che si concluse quasi simboolicamente con la crociata contro Dolcino, culminata con la sua morte sul rogo nel 1307. Il potere civile contribuì alla sconnfitta dei dissidenti in seguito ai mutamenti politici e sociali che intervennero nelle aree più sviluppate d'Europa, e in particolare in Italia, le autorità pubbliche si mostrarono indifferenti alle concezioni catare. e iinteressate invece a una vita religiosa ordinata. In questo senso venne avviato nel Ducento un collegamento più stretto tra fedeli e parrocchie, atraverso l'obbligo della comunione annuale e dalla confessione presso il proprio sacerdote curato, e nel Trecento si identificò ancora di più la vita religiosa con gli obblighi imposti dalle norme canoniche. Nel Trecento iniziò anche un processo che portò gli organismi diocesani e parrocchiali  a diventare più efficienti. Cominciarono a svilupparsi notevolmente laicali, maschili e femminili, che erano di origine antica e che sarebbero passate sempre ppiù spesso sotto il controllo degli ordini mendicanti e del clero diocesano. I papi riuscirono a riservarsi il diritto di nominare i vescovi, sottraendolo ai capitoli cattedrali.Le Curie diocesane si dotarono di personale stabile per i tribunali e la cancelleria, migliorarono il controllo del clero e l'amministrazione fiscale. 
Se si prende in considerazione la produzione storiografica riguardante questo periodo, si nota che mentre la vita religiosa è stata abbastanza indagata e le eresie, in particolare quella catara sono molo studiate, discusse e ridiscusse sugli inquisitori e sul loro esercizio del potere nella nostra penisola le ricerche sono poche e in buona parte vecchie e limitate. L'Italia medievale è un paese punteggiato da migliaia di campanili, e da centinaia di eretici, ma sembr asguarnito di inquisitori. 

La lotta finale contro i catari

Immediatamente dopo l'assassinio di fra Pietro da Verona, Innocenzo IV volle dare nuovo impulso all'ufficio inquisitoriale, che fino ad allora si era venuto struturando in modo lento e faticoso. La decisione rientrava in un disegno più vasto di supremazia pontificia, per raggiungere la quale qualche anno prima il papa aveva bandito una crociata contro l'imperatore Federico II per la sua opposizine alle pretse papali di sottometterlo alla propria autorità. Morto Federico II, con al decretale Ad extirpanda del 15 maggio 1252, Innocenzo IV stabilì alcuni principi base che sarebbero perdurati nei secoli seguenti, ufficializzando disposizioni presenti nelle costituzioni antiereticali feericiane: obbligo impostoal podestà di far rispettare le leggi civili ed ecclesiastiche conro gli eretici; formazione di un corpo di polizia di dodici uomini sicuramente catttolici, due notai e due servitori, per la cattura degli eretici e la confisca dei loro beni; stesura scritta dagli inquisitori da parte di un notaio; carcere speciale a spese del comune e tortura dell'eretico da parte del podestà <<senza perdita di membra e pericolo di morte>>; vendita dei beni degli eretici e ripartizione delle entrate in tre parti: una al comune, una agli ufficiali dell'Inquisizione, una all'inquisitore e al vescovo per finanziare la lotta all'eresia. 
La novità della decretale Ad extirpanda consiste sopratutto nell'aver raccolto in un unico documento una serie di scelte decise in precedenza in modo non sistematico, e nell'ave stabilito un rapporto diretto tra papa e comuni, a prescindere dall'appoggio imperiale e dalle sue leggi. Strumento di questo rapporto diretto furono gli ordini mendicanti. Essi furono molto utili al processo di accentramento romano attuato per il controllo delle diocesi e per rimediare al poco interesse dei vescovi nella lotta contro i catari. Si delineò così un modello italiano dell'ufficio inquisitoriale, che assunse nella pratica  alcune caratteristiche peculiari rispetto al funzionamento nelle altre aree europee, particolarmente in Francia e in Germania, con una propria organizzazione territoriale e una procedura adattata alle esiigenze locali, divise a seconda delle regioni italiane.

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